Cosa significa “navigare a vela”? Per me è la stupefacente possibilità di partecipare insieme all’acqua e all’aria ad un gioco che unisce la ragione e l’emozione, le forze della natura e i limiti dell’uomo. È nell’incontro tra i due elementi che si trova la chiave per il controllo del movimento o detto in modo più formale, “a far avanzare la barca è la forza risultante tra la pressione del vento sul centro velico e dell’acqua sul piano di deriva immerso”. Certo le leggi della fisica lo spiegano perfettamente, ma solo chi ha cavalcato in questo spazio magico può percepirne il potente impulso vitale. La navigazione a vela ti regala l’euforica sensazione di partecipare all’antica giostra tra il vento e il mare, proprio lì, nell’interfaccia tra aria ed acqua, dove si crea il miracolo. Se il vento non ha nulla da dire, il mare se ne sta tranquillo, ma se il vento alza i toni il mare risponde, a volte con violenza. Quando invece i due elementi stanno nei limiti, una volta capito il gioco, anche noi possiamo dire la nostra, mettendoci in mezzo e avanzando verso la prossima boa.
Quand’ero ragazzo, a casa nostra viveva una pianta diversa da tutte le altre, era una presenza ingombrante e pericolosa, con fiori rossi e il fusto ricoperto di spine dolorose e irritanti, una pianta da rispettare. In autunno, con il calo delle temperature, la spostavamo dalla terrazza dove passava l’estate, al davanzale coperto della finestra alta del salotto. Evidentemente era un luogo adatto a lei, luce in abbondanza e il tepore del termosifone in basso.
Sono passati molti anni da allora; il tempo cambia le cose.
Seguendo il destino del suo grande cuore, mia madre ci ha lasciati nel primo giorno di primavera dell’anno scorso. L’assenza è stata dolorosa per chi l’amava, ma non meno colpito è stato anche tutto il mondo vegetale che gravitava intorno a lei. E così me ne sono occupato. Ho spostato dalle terrazze e messo al riparo le piante che ne avevano bisogno, alcune sono state sistemate da amici e parenti. Più o meno una volta alla settimana andavo a trovare quelle rimaste in casa, cambiare l’aria e annaffiarle se serviva. Alcune erano anonime piante verdi che non mi dicevano molto, ma altre avevano un carattere particolare; come l’Amarillo, una pianta solitaria che viveva nella terrazza a vetri e che al primo freddo esplodeva in un maestoso fiore rosso, o la Clivia, che penso avesse qualche problema irrisolto e non fioriva mai bene come quella della zia Camilla. La primadonna però era lei, l’Euforbia Milii, quella che ogni autunno si trasferiva sul balcone in alto al sole e in primavera tornava a godersi la bella stagione in terrazza.
Venduto l’appartamento della mamma, l’ho portata con me.
Questa meraviglia spinosa, esposta sul poggiolo di una lunga terrazza rivolta a sud, credo abbia trovato la posizione adatta, perché si è ricoperta di foglie e fiori per tutta l’estate. Con l’arrivo di ottobre però, le temperature sono calate; la guardavo preoccupato, non avevo idea di dove avrei potuto metterla per proteggerla dal freddo. Ho pensato ad una serra, da sistemare in terrazza, ho usato il non-tessuto … beh, ci ho provato. In un angolo relativamente protetto l’ho coperta con cura, ma nonostante questo ai primi freddi l’ho vista soffrire. Così mi sono deciso e l’ho sistemata dentro casa.
Il mio appartamento è piuttosto piccolo, non ho molto spazio, ma sono riuscito a trovare un po’ di posto anche per lei.
… …
E’ trascorsa circa una settimana da quando l’ho messa al riparo e stamattina, con a terra un gran numero di foglie e fiori caduti, ho preso la scopa per ripulire il pavimento, poi mi sono seduto e l’ho guardata meglio chiedendomi cosa fare di lei. Dopo poco, osservandola con attenzione, cercando istintivamente di comprendere il suo punto di vista, di mettermi nei suoi panni, nei suoi tempi, nei suoi relativamente lenti processi biochimici, ho colto un segnale.
Ciò che conta èadesso, è il presente, il “dove sei ora”.
Qualunque azione tu compia, escludendo ogni giudizio e nei limiti della tua capacità di controllare l’Universo che ti circonda,
Sei sempre ed in ogni momento, esattamente dove devi essere.
Non pensare di controllare direttamente il caos, lo puoi fare esprimendoti naturalmente mentre ti lasciportare.
E’ come nuotare nel flusso di un fiume, schivando gli scogli e sfruttando le correnti per esplorarne il corso mentre scorre con la curiosità e la meraviglia di un bambino.
Sto scorrendo svogliatamente l’elenco dei contatti nella rubrica del telefono quando appare il suo nome. Mi fermo per un attimo e i pensieri inciampano: non ci sentiamo da più di vent’anni!
L’ho rivista una volta soltanto dopo la fine della nostra storia, durante una festa di matrimonio, un bel matrimonio di cari amici che vedo spesso ancora adesso. La sua figura si staglia immobile nel controluce di una vetrata che dà sul giardino. Improvvisamente sento pulsare il sangue nelle orecchie, un rumore che attutisce ogni altro suono. Perdo il contatto con la realtà. Mi guarda sorridente, è più alta di quanto mi ricordassi, sono sorpreso e felice di rivederla. Un breve saluto formale mentre cerco di ritornare con i piedi a terra. Nella mente scorrono fotogrammi velocissimi: la prima volta, gli sguardi trattenuti, le schermaglie iniziali, la prima consapevole decisione, l’euforia, il devastante epilogo. «Come ti sta andando la vita?» le chiedo. «Bene dai, e tu come stai?».
Il dolore per le macerie che l’esplosione di quella supernova aveva creato era ancora presente, o forse sono state semplicemente orgoglio e rabbia a parlare. Di certo non ho saputo fare tesoro di quel breve incontro, non ricordo nemmeno più la sua espressione quando alla fine ci siamo salutati.
Di lei adesso ho solamente una tenue traccia, un vecchio numero di telefono sopravvissuto ai trasferimenti della mia rubrica su almeno 6 o 7 cellulari diversi e che ora, dopo più di vent’anni, mi guarda da un’icona vuota con il suo nome aziendale salvato su Whatsapp.
E cosi, come si getta un sasso nell’abisso oscuro per coglierne l’eco, digito un semplice messaggio, solo il suo nome, seguito da un punto interrogativo. E clicco invio.
La mente irrequieta si calma, si respira il silenzio, tutto è sopito, rallentato, in attesa. I pensieri interrompono i loro giochi chiassosi. Nell’abbagliante calare del sole abbandono il controllo, mi lascio finalmente portare. … E quando, dopo un tempo indefinito, un brivido di freddo mi attraversa, riprende il respiro, il gioco dei pensieri e la coscienza.
(Tramonto da Pico de las Nieves – Gran Canaria 2021)
Come il battito d’ali di un pipistrello in Cina genera un uragano pandemico nel mondo, così possiamo generare noi una diversa vibrazione.
Essere una farfalla iridescente nel mondo delle cose o delle idee, dove ogni gesto, ogni parola, ogni manifestazione si riverbera nelle infinite connessioni della realtà trasformandola in un continuo e caotico cambiamento.
Scontrandoci ed incontrandoci sospinti dal caos gocce di pioggia danzanti al suono del caso creiamo fulmini ombre e arcobaleni visibili soltanto da universi alieni.
Ogni essere vivente percepisce il proprio universo attraverso i segnali ricevuti dal suo specifico sistema sensoriale ed elaborati dal sistema cerebrale.
Possiamo conoscere la realtà e fare previsioni attendibili ma solo entro limiti definiti dalle nostre capacità personali. La comprensione completa di come sia fatto l’universo per un altro essere vivente presuppone la capacità di immedesimarsi a tal punto da essere lui.
Questa è una raccolta di tracce, segni di un passaggio, pensieri espressi, memorie. E’ il tentativo di segnare un percorso in un universo in continuo mutamento.
«Dai muoviamoci che siamo in ritardo!» dice Alessandro, il giovane organizzatore del corso fotografico a cui sto partecipando. E così eccomi qua, ad arrancare faticosamente sulla neve indossando le ciaspole per la prima volta.
Al rifugio, la lezione sulla reflex e la fotografia di paesaggio è stata così interessante che abbiamo perso il senso del tempo ed ora siamo rischiando di perderci anche la “golden hour”. Prima del tramonto dobbiamo raggiungere la cima di un’altura innevata a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto. Dalla macchina sembravano si e no duecento metri ma adesso non ne sono più sicuro! Sono senza fiato. Quando affronti una salita a 2.236 metri di quota e conduci una vita sedentaria arrivi presto al tuo limite, ma adesso siamo in gara contro il sole, bisogna arrivare in cima prima che tramonti, altrimenti tutta questa fatica sarà stata inutile.
Finalmente ci fermiamo, lentamente alzo gli occhi, da qui si vede la strada che serpeggia salendo verso passo Giau con la Ra Gusela a guardia del valico. Il paesaggio è magnifico e lo sguardo si perde tra il bianco delle montagne innevate e il profondo blu del cielo.
Siamo arrivati in tempo, il tramonto però è piuttosto deludente, a ovest le nuvole coprono il sole che sta calando e le vette non si illumineranno della luce dorata che avevo sperato.
Comunque, visto che sono arrivato fin qui, apro il cavalletto e monto la fotocamera.
Qualche foto al passo, qualche scatto al tramonto quasi spento.
Nel frattempo il sole continua lentamente a calare avvicinandosi all’orizzonte, poi improvvisamente, sbuca sotto le nuvole.
Incantato dal momento, in ginocchio sulla neve, cerco di catturare la luce.
Su come la vita sia iniziata sulla Terra non vi sono certezze, sicuramente però la base molecolare su cui si fonda obbliga i primi esseri ad avere delle dimensioni specifiche: non troppo piccoli altrimenti i processi chimici metabolici non possono avvenire e non troppo grandi per mantenere una coerenza nell’organizzazione dell’individuo.
Tra la minima dimensione quantistica e la massima dimensione dell’universo vi sono 60 ordini di grandezza.
La misura della cellula, espressione basilare della vita, si colloca perfettamente a metà tra queste dimensioni. E così, seppure in modo diverso da quanto considerato in passato ma con una potenziale applicabilità anche a sconosciute specie aliene, l’essere umano e tutti i viventi, ritrovano da questo particolare punto di vista, la centralità smarrita nell’infinito spazio cosmico.